Questo articolo è apparso nel numero di marzo-giugno 2005 di Les Temps modernes.
Autore: Yves Bonnardel, a partire da un testo di Estiva Reus.
Tradotto dal francese da Brunella Bucciarelli e pubblicato sul sito della rivista Liberazioni.
Segue il testo integrale in formato HTML. Un opuscolo in formato PDF è disponibile in download.
Ciò che è naturale è buono, si ripete1. La Natura è un ordine armonioso, in cui ogni cosa è al suo posto, che non bisogna alterare. Essa ispira un sentimento religioso di rispetto, nel senso di adorazione e timore (quasi di sottomissione di fronte a ciò che ci appare potente e terribile).
Tuttavia, se la natura designa tutto ciò che esiste, niente può essere contro natura. Se invece per natura si intende una parte di ciò che esiste, allora ha senso parlare di “contro-natura” solo se si suppone non solo che la natura esista, ma anche che racchiuda una finalità. Ma una tale ipotesi non ha alcun fondamento. La scienza, in ogni caso, dopo Darwin, è muta su questo punto2. Il solo punto di appoggio che giustifichi l’esistenza di una tale finalità resta la fede (semplice fede nell’ordine naturale o fede religiosa). Inoltre la mera esistenza di un’entità finalistica quale la “Natura” non costituirebbe di per sé un criterio etico : dall’esistenza della Natura (o di Dio) non deriva automaticamente il dovere di sottomettersi alla sua volontà.
Di per sé, favorire un sentimento di “rispetto” verso ciò che ci appare potente e di sottomissione a un ordine (per quanto travestito da “volontà di armonia”) non sembra di buon auspicio... Tuttavia l’idea di natura resta onnipresente nel discorso normativo. Di fatto l’atteggiamento è più ambiguo: a volte si denuncia con indignazione ciò che viene considerato contro natura, a volte si celebra le conquiste che hanno permesso all’umanità di sottrarsi ai rigori della sua condizione primitiva. Nessuno desidera veramente rifarsi del tutto alla natura, ma d’altra parte nessuno rinuncia volentieri all’idea che la natura ci debba essere di esempio o di modello. Le considerazioni su cosa sia contro natura e cosa sia naturale (inteso come sinonimo di normale, sano, buono…) finiscono troppo spesso per mandare in corto circuito la riflessione su ciò che sarabbe giusto o sbagliato fare, su cosa sia desiderabile e perché e in funzione di quali criteri. L’idea di natura “inquina” il dibattito morale e politico…
La categoria “naturale” viene strettamente associata ad un giudizio di valore. La pubblicità usa il termine “natura” per designare ed evocare una qualsiasi nozione che abbia connotazione positiva : campagna, salute, tradizione, eternità, forza, autenticità, saggezza, semplicità, pace, chiarezza, abbondanza… Il sentimento della natura aggiunge un “supplemento d’anima” prezioso nel mondo delle merci, partecipa del “reincanto del mondo” del capitalismo: che cosa non è naturale, al momento della vendita?
L’ideologia del “rispetto della natura” guadagna sempre più terreno su quella della vittoria sulla natura, benché l’una sia lo specchio dell’altra. Mentre gli “avanzamenti” della scienza e della tecnica sono solitamente salutati come tappe nella Lunga Marcia del Progresso, nello stesso tempo si ripetono appelli allarmisti sui rischi che comporta giocare agli “apprendisti stregoni”. In entrambi i casi si fa ricorso a dei miti (il Progresso contro “l’Uomo Demiurgo”) piuttosto che alla riflessione sul carattere positivo o negativo delle conseguenze che ricadranno sull’insieme degli esseri interessati. Il dosaggio dei due atteggiamenti sembra del tutto arbitrario: attualmente la genetica e le biotecnologie sono le prime vittime del riflesso “pro-natura”, soprattutto quando vanno a toccare la riproduzione umana. Altre innovazioni della medicina sono annoverate, senza particolari emozioni, dal lato del progresso. Il fatto che una tale distinzione sia dovuta, almeno in parte, ad una riflessione sulle possibili conseguenze delle une e delle altre è sufficiente a spiegare il fatto che, laddove l’assistenza data ad una coppia per far nascer un bambino tramite fecondazione in vitro pone, secondo una formula consacrata, dei “gravi problemi etici”, mentre il cercare d’altra parte di risolvere problemi di sterilità prima del concepimento non ne solleva affatto? Tutto si svolge come se qualcuno avesse decretato il carattere sacro di alcune situazioni: la natura ha previsto una precisa procedura per la riproduzione e il non rispettarla esporrebbe a delle sanzioni terribili.
Simili reazioni si manifestano episodicamente nei domini più diversi: improvvisamente il terrore ispirato da qualche nuova minaccia rinnova l’idea che la Natura comanda e punisce. Così la preoccupazione suscitata dalla trasmissibilità all’uomo dell’encefalopatia spongiforme bovina ha portato a dire che il male sta nel fatto che ci si è permessi di alimentare degli animali naturalmente erbivori con farine di origine animale3.
In tal modo assistiamo oggi al risorgere di un pensiero religioso, laicizzato grazie alla sostituzione della parola Dio con quella di Natura. Lo si scorge ad esempio in quei discorsi che promuovono il rispetto degli equilibri naturali al rango di valore in sé. Nel suo significato primario, equilibrio è un termine puramente descrittivo. Designa uno stato di immobilità o di stabilità nel tempo: le relazioni fra gli elementi di un ecosistema sono tali che esso conserva la sua struttura, sia perché gli esseri che lo costituiscono non variano, sia perché si rinnovano sempre identici4. Tuttavia nel linguaggio corrente la parola equilibrio designa qualcosa di più di questo stato particolare (di riposo contrapposto al movimento), per acquisire il senso di uno stato ideale. L’equilibrio degli ecosistemi si muta in “ordine della natura” ovvero “armonia naturale”. La nozione di ordine evoca un sistema in cui ogni essere o categoria di esseri si trova nel posto giusto. Quella di armonia fa pensare ad uno stato di unità o di intesa in cui ogni parte si accorda alle altre nel modo migliore per contribuire alla bellezza dell’insieme5. Tali termini suggeriscono un’ immagine della Natura come regolatrice del mondo per il bene delle sue creature, e parallelamente indicano il pericolo che deriverebbe dallo scombinarne la perfezione.
Dato che le credenze si lasciano difficilmente formalizzare, è forse meglio in questo caso parlare, più che di religione, di mistica della natura. Essa è onnipresente, diffusa nella vita sociale: rumore di fondo delle nostre esistenze, è raramente formulata in sistema esplicito. Quando ciò avviene, è la voce di una religiosità che si distingue dalle religioni tradizionali per il fatto di essere perfettamente in linea con la società moderna : religiosità individuale ma comune, comune ma non collettiva. Una mistica diffusa, elaborata da individui atomizzati, che la celebrano di solito solo individualmente, nel segreto del loro spirito – in tutta laicità.
Una tale mistica gode di ottima salute: gran parte della gente classifica le attività ed i risultati umani in “naturali” (ovvero buoni, originali, autentici…) ed artificiali (degenerati, snaturati, cattivi..). Se alcuni si riuniscono nelle associazioni per la “Protezione della Natura” o nei negozi “biologici” (scomunicando le medicine, le pillole, la chimica ed il cemento…), i credenti non praticanti sono ben più numerosi. Molti avvertono l’attuale crisi ecologica in termini naturalisti: la nostra specie, come gruppo biologico, sarebbe di per se stessa un problema, l’umanità porterebbe in sé la maledizione essenziale di “distruggere la natura”. Un tale modo di affrontare problemi molto reali elude la questione dei rapporti sociali (è proprio a questo fine che viene invocata la natura) e impedisce di cercare delle soluzioni concrete, politiche: evidentemente infatti non tutti gli esseri umani e le attività sociali incidono con la stessa distruttività sul nostro ambiente e sulle nostre vite…Quanto alla credenza che i popoli “originari”, considerati “vicini alla natura” ( perché non dire semplicemente, come ai bei tempi del colonialismo “popoli primitivi” ovvero “naturali”?) potrebbero esserci d’aiuto consegnandoci una sorta di “saggezza originaria”… Non sarebbe più utile riparlare di rapporti sociali di sfruttamento, capitalisti, patriarcali etc.?
Per parte nostra, non troviamo nella natura (nella realtà) né armonia, né modelli da seguire, né una fonte di castighi e ricompense: si potrebbero elencare i “suoi” misfatti verso gli uomini e gli altri animali. Si potrebbero anche elencare i tentativi di giustificare i suoi danni con i vantaggi che ne risulterebbero, tentativi che si possono attribuire allo sforzo disperato dei teologi di dimostrare che la Creazione è sempre buona poiché è opera di Dio. In effetti, noi non crediamo che esista qualcosa come la Natura, che il mondo sia ordinato, equilibrato, armonioso, che le cose abbiano un loro posto naturale, e tanto meno che esista una natura delle cose. La nozione di “realtà” non è sufficiente, essa è descrittiva, non prescrittiva come lo è quella di “natura”. Si possono immaginare delle azioni “contro-natura”; ma delle azioni “contro-realtà”? Non si può violare o trasgredire la realtà: quando ci saremo sbarazzati del timore religioso, saremo liberi di riflettere su ciò che sia bene o male fare.
Si immagina volentieri che le cose abbiano un'essenza la quale fa sì che esse siano ciò che sono e non altre, che abbiano determinate proprietà ad esclusione di altre; che esse abbiano una propria“natura” che ne organizza le caratteristiche, l’accrescimento, il compimento, e che garantisce che esse resteranno al posto che è stato loro assegnato nell’”ordine della natura” e vi svolgeranno il loro ruolo; “Madre natura” è così ritenuta dare ad ogni elemento detto naturale la sua natura. Si associa una finalità a tale supposta “natura” delle cose: gli esseri che condividono “una stessa natura” sono fatti per qualcosa, sono destinati a comportarsi in una determinata maniera. È solo compiendo ciò per cui sono fatte che realizzeranno la loro vera natura. Così si ritiene che un gatto realizzi la sua natura di felino, o di carnivoro: se non si comporta in modo conforme a tale natura, sarà percepito come “degenerato”…
Le essenze sono essenziali, non si toccano. Pertanto non bisogna mischiare cose dichiarate essenzialmente (per natura) differenti. Lo stesso riflesso fa odiare il meticciato. La natura delle cose non deve essere “alterata” altrimenti l’ordine che essa garantisce si dissolverebbe in caos. Un tale immaginario mitologico condanna le biotecnologie in quanto creatrici di chimere, poiché confondono le fantasmatiche frontiere naturali fra le specie o, nel caso della clonazione umana, poiché sono ritenute un atto di profanazione verso una sacrosanta unicità6. Anche qui tuttavia, la questione non è sapere se le conseguenze delle nostre attività siano naturali o artificiali, se esse “violino le leggi di natura” (se “trasgrediscano una frontiera naturale” – quale si ritiene che sia quella fra le specie), ma valutare se sono o meno nocive, se sono pericolose, e per chi. Porre il problema nei termini di una scienza-cattiva-artificiale-industriale-moderna che si contrapporrebbe ad una saggezza-buona-naturale-artigianale-tradizionale, impedisce (o evita) di ragionare in funzione di criteri razionali. In particolare, per quanto riguarda le nuove tecnologie, ciò porta spesso a distogliere l’attenzione dal problema politico fondamentale : che non sono i popoli a decidere del loro futuro (e si potrebbe aggiungere oggi del futuro del pianeta) né dei mezzi che devono essere impiegati. Una critica simile può essere rivolta al movimento in favore dell’ agricoltura “biologica” il quale, in ultima analisi e nonostante le buone intenzioni, pone l’accento, nella sua ricezione pubblica, più sul credo secondo cui “ciò che è naturale è buono”, che sulle questioni etiche e politiche relative alla proprietà dei mezzi di produzione e di distribuzione, sulla decrescente sostenibilità ecologica o sulla distribuzione delle ricchezze.
Assegnando agli esseri una natura, si attribuisce loro sia un diritto che una finalità o un dover-essere. Secondo il più totale arbitrio. Per esempio il fatto che le donne possano avere bambini ha spesso condotto all’idea che esse debbano avere bambini, cioè che la loro vera natura si realizzi solo nella maternità. Il fatto che gli organi sessuali maschili e femminili permettano la procreazione è stato interpretato come un comandamento della natura (o di Dio) il quale esigerebbe che essi servano solo a questo7. Di contro, il fatto che la bocca sia il punto di ingresso per l’ingestione di alimenti ha raramente portato i moralisti a disapprovare quelli che se ne servono per suonare il clarinetto. La natura è la norma.
Generalmente ciò che viene percepito come naturale è in realtà ciò che è abituale o ciò che è permesso in una data società – in particolare tra coloro che vi occupano una posizione dominante: dal momento in cui non è più per diritto divino, è per necessità di natura che gli adulti hanno il dovere di gestire la vita dei bambini, gli uomini quello di dirigere la vita delle donne, i Bianchi di “civilizzare” i Neri o le altre “razze”, gli umani di regnare sulle altre “specie” ecc. I dominati sono tali per natura, così come i dominanti8. Il discorso è brutale ma efficace. Di nuovo, l’appello alla Natura permette di risparmiarsi una discussione argomentata sui nostri valori e sulle scelte che si ritiene ne derivino. Non c’è più spazio di discussione, tutto è deciso.
Consideriamo per esempio la nozione di razza; il problema non sta nel fatto che ci si sia sbizzarriti a distinguere delle varietà umane (quelli che hanno la pelle nera, quelli che hanno la pelle bianca, gli occhi più o meno a mandorla, i biondi ed i bruni…), ma nel fatto che si sono “naturalizzate” alcune delle classificazioni così operate (quelle che offrivano un interesse politico): la “pelle nera” è diventata il segno dell’appartenenza ad una razza, facendo di quest’ultima una natura. Avere la pelle nera cessa da questo momento di essere una caratteristica, una proprietà individuale tra le altre, per assumere il significato di un’essenza, di una appartenenza ad una categoria globalizzante: l’individuo appartiene ad una classe, che per intero lo determina; egli ne diventa un rappresentante. Non ha la pelle nera, è Nero. Svanita ogni individualità, egli diventa un esemplare che esprime prima di ogni altra cosa la categoria cui appartiene. Questo vale naturalmente soprattutto per i dominati: se i Neri sono essenzialmente Neri, i Bianchi sono sì dei Bianchi, ma non si riducono certo al colore della loro pelle.
Lo stesso vale per i sessi: io non ho più questo o quel sesso, che costituisce una delle mie particolarità, ma sono di un certo sesso. Si ritiene che il mio sesso sia determinante di tutto il mio essere. Tanto più per le donne. Tota mulier in utero: la donna è definita interamente dal suo utero. I maschi, loro, restano pienamente umani, incarnano la specie, l’universalità, mentre le donne ne sono un aspetto specifico, una particolarità, una differenza.
Anche i bambini sono solo bambini, le loro reazioni sono percepite solo come espressioni infantili, non come espressioni proprie di un individuo particolare; gli adulti, d’altra parte, sono pienamente umani, individualizzati. Sono la norma…
Molti antirazzisti e antisessisti purtroppo non vogliono abbandonare l’idea di natura ma cercano semplicemente di scalzare la pertinenza di categorie come il sesso e la razza, rendendo la loro definizione quanto più possibile sfumata. Una tale tattica è particolarmente evidente nel caso del razzismo laddove si riassume nella formula secondo cui “ le razze non esistono, non c’è che un’unica razza umana”. Per quanto riguarda il sessismo, l’affermazione equivalente: “i sessi non esistono”, è troppo drastica, ed è di solito sostituita da quella per cui “c’è in tutti noi una parte maschile ed una parte femminile”. Queste argomentazioni hanno in comune il fatto che possono essere sostenute senza che si mettano in questione due caratteristiche fondamentali dell’approccio “naturalista”: la trasformazione degli individui in entità portatrici dell’essenza della categoria cui appartengono, e la fondazione dello statuto etico dei membri di un gruppo sui tratti naturali che si ritiene corrispondano loro. L’opinione oggi dominante non vuole rinunciare a cercare la sua giustificazione nelle intenzioni della natura, né contestare la pertinenza morale dei limiti “naturali”.
Esiste un campo nel quale l’opinione dominante non può essere spiegata altrimenti che con l’adesione a due postulati, anche se coloro che la sostengono raramente ne hanno consapevolezza. Si tratta della definizione di quegli esseri di cui dovremmo prenderci cura (i “pazienti morali”). Chi è che “non bisogna uccidere”, che “non bisogna far soffrire”, che “non bisogna trattare come semplice mezzo per raggiungere i nostri fini”? Generalmente la risposta è: gli esseri umani, mentre secondo logica la risposta dovrebbe essere: tutti quelli che sono sensibili a tali comportamenti. In pochi casi una “differenza naturale”, all’occorrenza di specie10, è usata con così poche precauzioni per definire una frontiera morale. Per coloro che in tal modo sono stati esclusi, si ammette non solo che il loro bene si identifica con “ciò che la natura ha previsto per loro”, ma, all’occasione, con ciò per cui ci sono utili: i gatti sono fatti per acchiappare i topi, le pecore per essere tosate e i polli per essere arrostiti.
Vi sono forse una o più caratteristiche naturali che giustificano in modo evidente il fatto che non ci si preoccupi degli interessi di esseri sensibili che non siano umani11? Il fatto stesso di porre il problema è di solito considerato sacrilego. Tuttavia, se si prendono in considerazione i membri concreti di una specie, si incontra una grande difficoltà a trovare un carattere che sia nel contempo esclusivamente umano e presente in tutti gli uomini. I tratti distintivi generalmente invocati non appartengono a tutti gli uomini. Essi caratterizzano il tipo-umano, una natura umana che ci si è dilettati a disegnare per le proprie esigenze (che corrisponde all’essere umano adulto in buona salute mentale). La stessa definizione di “umano” resta del tutto indefinita. I feti sono umani? E che dire degli spermatozoi e degli ovuli? Che dire degli individui in coma profondo, che ci si sente obbligati a dichiarare “clinicamente morti” (mentre indubbiamente continuano a vivere) per sentirsi autorizzati a “smembrarli”? I criteri che definiscono l’umano non corrispondono affatto ad una definizione scientifica, accettabile da tutti indipendentemente da presupposti filosofici o teologici. È anche importante notare che le caratteristiche invocate per giustificare la discriminazione contro i non-umani (l’intelligenza, la ragione, la libertà, il fatto di essere “usciti dalla natura”…) sono essi stessi indefiniti e soprattutto non hanno nessun rapporto con ciò che dovrebbero giustificare. Del resto non possiamo che rallegrarci del fatto che all’occorrenza essi non vengano presi in considerazione quando si tratta dei numerosi esseri umani che non sono né intelligenti, né ragionevoli, né liberi… Curiosamente, questi stessi argomenti sono accettati senza tergiversare quando si tratta di animali: in questo caso non ci facciamo scrupoli a trattarli in modo tale che ogni giorno in Francia decine di milioni di animali provino paura, angoscia, sofferenza, fastidio, rabbia. Le nostre pratiche provocano delle sensazioni – penose, dolorose o insostenibili – che mai ci augureremmo di dover sperimentare su se stessi. Se prendessimo sul serio queste contraddizioni, potremmo cambiare le nostre pratiche individuali e collettive e far subito cessare la gran parte di queste sofferenze.
Sono già più di due secoli che Jeremy Bentham riassumeva in questi termini le obiezioni sollevate dall’attitudine specista:
I Francesi hanno già scoperto che avere la pelle nera non è affatto una ragione per cui si possa abbandonare un essere umano ai capricci di un macellaio. Arriverà il giorno in cui si riconoscerà che il numero di zampe, la quantità di peli sulla pelle o il modo con cui finisce l’osso sacro sono delle ragioni del tutto insufficienti per abbandonare un essere sensibile alla stessa sorte? Cos'altro dovrebbe tracciare una linea insuperabile? Forse la facoltà di ragionare o quella di conversare? Ma un cavallo o un cane adulti sono incomparabilmente più razionali e anche più loquaci di un bambino di un giorno, una settimana o anche di un mese. Ma, anche se non lo fossero, cosa cambierebbe? Il problema non è: possono ragionare? E nemmeno: possono parlare? Ma: possono soffrire?12
Il giorno di questa liberazione non è ancora arrivato, e oggi come allora la discriminazione di cui sono vittime gli animali resta tanto arbitraria quanto il razzismo e lo sfruttamento – onnipresente, massiccio, feroce – che ne deriva è per ciò stesso tanto ingiustificabile moralmente quanto lo era la schiavitù. Essa è la base su cui è costruita la nostra civiltà. E forse se il naturalismo occupa tuttora un posto fondamentale nella nostra cultura, dipende in buona parte dal suo ruolo insostituibile nel giustificare lo specismo.
La nostra umanità sembra in effetti acquistare tanto più valore quanto più disprezzo si rivolge agli animali. Essa si definisce pienamente nel contrasto con “l’animalità”, cioè con quei rappresentanti del tutto determinati da una Natura a cui essa si oppone punto per punto: gli esseri umani sono degli individui che possiedono un valore intrinseco, hanno una storia, sono razionali, coscienti e liberi; sono brillantemente usciti dallo “stato di natura”, mentre gli animali sono dei meccanismi funzionali all’ordine (la Natura), esemplari della loro specie, totalmente diretti dai loro istinti13e prigionieri della loro naturalità senza speranza di redenzione. Abbiamo ritagliato nel mondo reale due regni che si definiscono per opposizione fra di loro: uno, regno della libertà e dell’individualità, con l’esclusiva della dignità, l’altro, regno del determinismo e della funzionalità, privo di valore suo proprio. Con ciò accettiamo una doppia morale, derivante dall’essenzialismo cristiano: una morale di uguaglianza all’interno del gruppo “biologico” costituito dalla specie umana, ed una morale profondamente elitaria e gerarchica verso gli individui delle altre specie. È sulla base dell’”elemento” gerarchico della nostra morale che sono state elaborate le discriminazioni razziste e sessiste: è sufficiente restringere il gruppo degli “uguali” naturalizzando quelle categorie che servono per escludere, per far passare alcuni “dall’altra parte della barriera”. A riprova, se ce ne fosse bisogno, dell’assoluta arbitrarietà (e della grave pericolosità) di nozioni quali Umanità e Natura, che nonostante ciò si suppongono fondamentali per la nostra etica e di conseguenza per la nostra politica.
In realtà, se bisogna stabilire delle differenze radicali nel reale, non bisogna cercarle nell’opposizione fra naturale e umano, fra naturale e sociale, fra naturale e artificiale, fra innato e acquisito14etc. Da un punto di vista sia scientifico , sia filosofico che etico, non è tanto pertinente la distinzione fra supposti “esseri liberi” ed “esseri naturali”, ma quella fra materia sensibile ed inanimata, fra cose reali che provano delle sensazioni, hanno dei desideri e di conseguenza agiscono in funzioni di obiettivi propri, e altre cose che non hanno sensazioni né interessi, che non attribuiscono nessun valore agli avvenimenti e alcun fine alla loro esistenza. Fra esseri sensibili e cose insensibili, in breve, fra gli animali e i sassi o le piante. Ancor più della presenza di una coscienza riflessiva, il “semplice” fatto che in determinati casi la materia sia capace di provare delle sensazioni è l’enigma più impressionante; la spiegazione di un tale mistero è la sfida che dovranno raccogliere le scienze nel corso di questo nuovo secolo.
Sono le cose viventi sensibili che danno valore a ciò che esse vivono. I soli valori che abbiano esistenza oggettiva sono quelli che ciascun essere sensibile dà alla sua vita, ai suoi momenti vissuti e al mondo che lo circonda. In tal senso il mondo non è insensato o assurdo, ma ha un senso: o meglio, ne ha moltissimi! Dei sensi che non derivano da una totalità, ma da ciascuno degli esseri che, separatamente e per il fatto di essere sensibili, danno un senso al loro mondo. Le uniche cose che abbiano valore per se stesse sono questi esseri sensibili: noi tutti, che sentiamo il mondo, sentiamo la nostra vita, il dolore ed il piacere, il desiderio e la repulsione, che conosciamo l’intenzionalità, la volontà e il rifiuto. Noi tutti: non soltanto gli esseri umani, ma tutti quegli esseri che siano dotati di sensibilità.
La sensibilità è stata svalutata poiché esclude quei valori che sono cari all’Umanesimo (la Ragione, la Libertà, ecc). Assistiamo tuttavia negli ultimi decenni ad un’evoluzione verso una crescente considerazione della sofferenza e del piacere in quanto tali. È noto che oggi le terapie del dolore sia per gli uomini che per gli animali da compagnia sono in pieno sviluppo, ad esempio i neonati non vengono più operati senza anestesia15. Parimenti, ci si comincia ad occupare del benessere degli animali da allevamento. Certo, siamo ben lontani dalla rivendicazione di uguale trattamento, ma è tuttavia importante che si ponga una nuova attenzione per gli affetti, le sensazioni, le emozioni, che si dia valore alla sensibilità in quanto tale. Riteniamo trattarsi dell’emergere di un movimento che ha le sue radici nei secoli precedenti, nei quali la sensibilità e la sofferenza (quella propria e quella degli altri) hanno assunto progressivamente importanza. Un tale movimento di attenzione crescente alla nostra vita sensibile potrebbe essere chiamato “sensibilista”… Ma non cercatelo nei dizionari, ancora non vi figura.
La regola che impone di“obbedire alla natura” è priva di senso. È al prezzo di varie confusioni (in particolare lo slittamento arbitrario fra due significati del tutto diversi del termine “legge”, che designa sia una regolarità che un comando) che una corrente di pensiero multiforme pretende di fondare un'etica sul “rispetto” dell’”ordine naturale” ovvero sull’obbedienza alle “leggi della natura”. Tornare ad una tale idea di natura non è nient’altro che un ritorno o un richiamo all’ordine.
I preconcetti si propagano sfuggendo ad ogni interrogazione critica. Ma le proposizioni vuote o false non diventano vere a forza di ripetizioni. Sono pericolose poiché offrono una linea di condotta illusoria o erronea di fronte a delle questioni ben reali. Invocare la natura anziché dei principi chiari di giudizio è uno degli ostacoli maggiori che frenano molti movimenti contemporanei che cercano di migliorare il mondo.
Invocare un criterio di naturalità anziché uno di giustizia porta a consolidare ogni ingiustizia. L’etica è la ricerca del bene. La sola etica degna di questo nome è quella che si applica a tutti quegli esseri cui si può fare del bene o del male, cioè a tutti gli esseri coscienti (sensibili). Questo deriva dal principio di giustizia o equità: l’uguaglianza, per definizione, rifiuta ogni discriminazione arbitraria.
Oggi molti preferiscono cullarsi nella nostalgia di un’“età dell’oro”, di “modi di vita tradizionalmente armoniosi” che non sono mai esistiti, piuttosto che battersi qui ed ora per la costruzione dell'avvento di mondi che abbiano cura di altri mondi, di tutti gli altri. Se la politica vuole fondarsi sull’etica, non ha nulla da guadagnare nel puntellare i suoi valori sul sentimento della natura.
Fortunatamente non c’è alcuna fatalità naturale: non è nella “natura” di nessuno preferire un gelido rispetto dell’Ordine ad un dibattito aperto e conflittuale su ciò che sia giusto o meno fare.
1. Questo articolo contiene dei passaggi tratti – con il consenso dell’autore – dalla prefazione di Estiva Reus al saggio Sulla Natura di J.S. Mill (La Decouverte, 2003). Questo scritto di Mill, la cui prima edizione risale al 1874, presenta una notevole analisi critica delle dottrine che “fanno della Natura il banco di prova del giusto e dell’ingiusto, del bene e del male o che in qualsiasi modo o misura, attribuiscono merito o approvazione al seguire, imitare e obbedire la Natura” (J.S. Mill, La Natura in Saggi sulla religione a cura di L. Geymonat, Feltrinelli, Milano 1953-1987, p. 19). Più in generale, le analisi che seguono devono molto alla riflessione in corso nei movimenti per l’uguaglianza animale.
2. Si veda l’opera collettiva Espèces et ethique. Darwin une ( r )évolution à venir, ed. thain party, 2001. La versione della biologia, dell’ecologia o dell’evoluzionismo che si insegna a scuola, di cui si leggono dei riassunti divulgativi nelle riviste (comprese quelle scientifiche), di cui si sente parlare alla radio o alla televisione, sono di solito infarcite di notazioni naturaliste, finaliste ed olistiche.
3. Al contrario, le pratiche ordinarie di inseminazione artificiale sulle mucche non ha né scandalizzato l’opinione pubblica, né turbato i comitati di etica. Quanto poi al trattamento delle mucche stesse, chi se ne cura?
4. Nonostante il suo successo nel pensiero ambientalista del grande pubblico, è probabile che alla nozione di equilibrio naturale non corrisponda alcun fatto reale. Cfr. Daniel Botkin Discordant Harmonies, A New Ecology foe the Twenty-First Century, Oxford University Press, 1990.
5. È interessante rilevare che la nozione di “ordine naturale” è contemporanea di regimi politici e sociali esplicitamente autoritari, mentre quella d “equilibrio naturale” è piuttosto contemporanea alle democrazie parlamentari. L’idea di natura è stata spesso una proiezione del nostro modo di vita sociale; perciò è inquietante constatare che abbiamo della natura una visione profondamente totalitaria, in cui gli individui esistono solo come meccanismi e funzioni all’interno di un ordine totalizzante.
6. Per una critica dei sottintesi del discorso umanista contro la clonazione umana cfr. D. Olivier, “Alors, on pourra les manger?” in Cahiers antispécistes, n.° 15.
7. Per esempio, a proposito di relazioni omosessuali, si legge nel Catechismo della Chiesa Cattolica: “Basandosi sulle Sacre Scritture che le presentano come gravi depravazioni, la Tradizione ha sempre sostenuto che 'gli atti omosessuali sono intrinsecamente disordinati'. Sono contrari alla legge naturale. Escludono l’atto sessuale dal dono della vita. Non derivano da una vera complementarietà sessuale e affettiva. Non potrebbero in nessun caso essere approvati” (Mame/Plon, 1992, p. 480).
8. In effetti, i dominanti pensano di essere emersi, con le loro qualità, dalla natura (diversamente dai dominati, che si immaginano volentieri ancora immersi in essa), salvo quando si tratta di trovare una legittimazione al dominio: in tal caso ridiventano degli “esseri naturali” (maschi), con i loro bisogni irreprimibili, se si tratta di giustificare una violenza (cfr. D. Welzer-Lang, Le viol au masculin, L’Harmattan, 1988); ridiventano degli esseri naturalmente carnivori, quando si tratta di giustificare la consumazione di carne (cfr. Clém Guyard, Dame Nature est mythée, éd. Carobella ex natura, 2002), ecc. Per quanto riguarda il rapporto fra natura e pratiche sociali di appropriazione, è utile Colette Guillaumin, Sexe, Race et Pratique de pouvoire. L’idée de Nature, Indigo et Cote-femmes, 2000 [1978].
9. Il termine specismo è stato creato sul modello dei termini “razzismo” o “sessismo”. Esso designa la discriminazione arbitraria verso gli individui sensibili che non appartengono alla nostra specie. Dallo specismo deriva uno sfruttamento di brutalità estrema, dato che la maggior parte degli esseri umani delle nostre società considerano gli animali come merci, che si possono usare per degli scopi tanto irrisori come quelli di lanciarli in aria per poi ucciderli e mangiarli!
10. Cfr. D. Olivier, “Les espéces non plus n’existent pas”, Cahiers antispécistes, n.° 11, dic. 1994.
11. Un inventario ed un analisi critica delle teorie che sostengono questa distinzione si può trovare in Florance Burgat Animal, mon prochain, (ed. Odile Jacob, 1997). Nella filosofia morale specializzata, la frontiera “naturale” che delimiterebbe la specie umana è raramente presentata in modo così sommario, come costitutiva, di per sé, di un criterio morale pertinente. Si sostiene invece che gli esseri appartenenti a questa specie sono i soli a possedere determinate caratteristiche che possono, quelle sì, valere come criterio. Si cerca così, in un modo più presentabile, di arrivare ai medesimi risultati. Queste posizioni sono state passate sistematicamente al vaglio della critica negli ultimi trenta anni, particolarmente da autori anglosassoni (P. Singer, T. Regan, J. Rachels…) che ne hanno rivelato tutta la debolezza.
12. J. Bentham, An Introduction to the Principles of Morals and Legislation (1789), cap. XIX, nota al par. IV.
13. L’istinto rimane un elemento centrale della retorica naturalista riguardo agli animali, ma nessun etologo oggi osa riferirsi ancora ad una nozione che sembra ricordare la “virtù dormitiva” di Molière… Il merito principale della nozione di istinto è quello di svuotare l’idea di una soggettività animale (o, ancora non molto tempo fa, di altre classi dominate come le donne o i neri) e di evocare (senza esplicitare!) una trasmissione dalla specie all’individuo della funzione naturale che questo deve incarnare.
14. La tradizionale controversia a proposito di ciò che sarebbe acquisito e ciò che sarebbe innato nell’essere umano (per esempio per quanto riguarda i sessi o le “razze”), è comprensibile solo a partire dalla credenza nell’idea di natura; innato ed acquisito sono necessariamente inestricabili e dipendono nei vari casi da cause molto numerose ed eterogenee, che non ha senso voler distinguere in due categorie. Inoltre, le qualità che si considerano innate non implicano minimamente una natura, nonostante ciò che si vuol sperare o temere. I caratteri innati non implicano né un essenza, né un destino (un dover-essere), ed è erroneo pensare che ciò che è innato sia sempre immutabile, definitivo (e in certi casi “inconscio”, dato che non richiede per esercitarsi né una percezione soggettiva, né una decisione del soggetto), mentre ciò che verrebbe acquisito resterebbe plastico, modificabile, migliorabile (e cosciente, e volontario, etc.)
15. Cf. Claude Guillon, À la vie à la mort. Maîtrise de la douleur et droit à la mort, Noêsis, 1997.
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